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Daniel Foss: la vera storia del Robinson dimenticato (e sconosciuto) e del suo remo

Poco prima della sua morte avvenuta nel 1916, Jack London scrisse Il vagabondo delle stelle, romanzo che narra le molte vite di Darrel Standing, professore di agraria detenuto nel carcere di San Quentin in California e condannato più tardi all’impiccagione. Durante la sua permanenza in carcere, attraverso delle esperienze di “piccola morte”, riesce a liberare l’anima dal proprio corpo, riuscendo così a viaggiare attraverso le epoche e, soprattutto, a rivivere le sue vite passate.

In uno di questi viaggi, l’anima di Darrel Standing vive nel corpo di Daniel Foss. A differenza degli altri “corpi” menzionati nel romanzo (il bambino Jesse Fancher, il conte Guillaume De Sainte-Maure,  Ragnar Lodbrog amico di Ponzio Pilato, e altri) Daniel Foss è un marinaio realmente esistito che nel 1809 salpò per le Friendly Islands (attualmente Isole Tonga) per il Capo di Buona Speranza. Fu l’inizio di un calvario di sei anni che lo portò al disastro in mare, alla fame, al cannibalismo, ad anni di solitudine forzata e, infine, ad un meritato, anche se a lungo rimandato, soccorso.

Il 25 novembre la nave su cui viaggiava Daniel Foss incontrò una terribile tempesta e urtò contro un un iceberg riportando gravissimi danni e nel giro di cinque minuti la nave, un brigantino, era completamente affondata. Foss riuscì a salvarsi insieme a venti dei suoi compagni che raggiunsero la lancia di salvataggio. Immediatamente, presero rotta verso sud, pregando che le loro modeste razioni di manzo, maiale, acqua e birra che avevano a disposizione li avrebbero sostenuti fino a quando non avessero trovato un terreno o qualcuno che li soccorresse. Ma le scorte di cibo e acqua erano scarse e il cattivo tempo continuò imperterrito. Dopo nove giorni i 21 uomini dell’equipaggio si erano ridotti a otto e il 10 gennaio rimasero in vita il solo Foss e altri due e altri due compagni estremamente provati dalla fame.

Ad un certo punto decisero di tirare a sorte per determinare chi sarebbe stato sacrificato per la sopravvivenza dei rimanenti due. Toccò al chirurgo di bordo: si tagliò una arteria del braccio sinistro, e Foss e il suo compagno si nutrirono con il loro sangue caldo del loro compagno mentre lui, silenziosamente, spirò.

Per 12 giorni Foss e il suo compagno si nutrirono della carcassa del medico in decomposizione, e il 5 marzo avvistarono finalmente terra! Qui Foss si trovò in un’altra situazione difficile e altrettanto straziante. L’imbarcazione su cui si trovavano lui e l’ultimo superstite della spedizione, urtò violentemente contro una barriera di rocce al largo dell’isola che avevano avvistato. Rapidamente la barca si capovolse e gettò i due uomini in mare. Fosse riuscì ad aggrapparsi ad un remo e a raggiungere la costa. Del suo ultimo compagno non ne seppe più nulla.

Resistendo ad un travolgente bisogno di farsi prendere dal panico, Foss procedette ad esplorare l’isola sulla quale era sbarcato e le sue scoperte gli portarono un po’ di allegria. L’isola era terribilmente piccola, lunga non più di un chilometro, e non vi era alcun segno di animale, uccello, o forme di vita marina, ad eccezione di pochi molluschi. Foss rimase senza cibo per tre giorni, il suo corpo era gonfio e provato dal mare, dal vento e dalle rocce. Sapeva che presto sarebbe morto. Pensò a casa sua, e fu immerso in un profondo stato di malinconia. Tuttavia, il mattino seguente si svegliò decise di continuare la sua lotta. Verso mezzogiorno scoprì il corpo di una foca  morta in un crepaccio tra le rocce.

Alcuni giorni dopo venne svegliato da dei versi che gli sembrarono dei ruggiti di cani. Corse verso la riva e non incontrò un branco di cani, bensì migliaia di foche, vive! Corse tra le loro file, agitando il suo remo con foga e violenza.

Alla fine della giornata aveva macellato più di 100 foche.

Avendo così risolto il problema del cibo, Foss fu costretto a lavorare sul perfezionamento del sistema di approvvigionamento dell’acqua. Fino ad allora, in mancanza di contenitori adeguati, il naufrago fu costretto a bere l’acqua piovana che si raccoglieva nelle buche delle rocce. Creò quindi un secchio da una grande roccia, lavorandola e modellandola con le pietre più dure che trovò sull’isola. Nel giro di cinque settimane ebbe un grosso secchio di pietra in grado di contenere quasi due litri d’acqua. Nel corso dei mesi seguenti ricoprì l’isola di fori per immagazzinare l’acqua, disponendoci anche dei coperchi di pietra per conservarla. Così facendo, Foss aveva 200 litri di acqua a sua disposizione in ogni momento.

Durante il secondo anno sulla isola, Foss aveva fatto molto per superare le difficoltà della sua prigionia. Eresse una capanna di pietra, che lo circondava con una barricata alta 10 piedi che lo proteggeva dalle onde del mare e venti forti. Nel punto più alto dell’isola ha costruito un pilastro alto 30 piedi e ornato con i brandelli della sua camicia di flanella. Un segnale di soccorso per le navi di passaggio. Diede alla sua permanenza sull’isola un ordine tradizionale, con la creazione di un calendario sul l’unico pezzo di legno piatto che si trovava sull’isola, il remo.

Il remo diventò il suo tuttofare: era un’arma, un’asta portabandiera, una canna, un pungolo; e Foss lo custodiva  gelosamente in un involucro di pelle di foca. Negli anni successivi il remo diventò anche il libro dei canti: Foss vi intagliò un breve versetto, che cantava a se stesso ogni sabato. Ispirato da questa impresa, utilizzò la parte più ampia del remo come una sorta di diario, incidendo con la pietra la storia del suo naufragio e la successiva vita in esilio. Nella migliore delle ipotesi poteva incidere 12 lettere al giorno, facendo in modo che dopo la sua morte, non fosse dimenticato.

In modo anche abbastanza appropriato, è stato proprio il remo che salvò Foss, durante il sesto anno del suo confino. Avvistò una grande nave, e  una piccola barca che cercava di approdare su quell’isola frastagliata dalle rocce. Foss prese il suo remo e  si tuffò a capofitto tra le pericolose onde e nuotò verso il piccolo vascello di salvataggio.

Quando fu al sicuro, a bordo della grande nave, Foss e il suo remo furono considerati con grande curiosità e ammirazione da quegli attoniti marinai. Foss poi tornò a casa sua a Elkton. Fu tanta la gratitudine al suo che lo donò al curatore del Museo Peal a Philadelphia. Purtroppo, oggi il museo non esiste più, e del remo si è persa ogni traccia.

“A journal of the shipwreck and sufferings of Daniel Foss , a native of St. Mary’s (Georgia) who was the only person saved from on board the brig The Negotiator, of Alexandria, which foundered in the Pacific Ocean, on the 26th nov. 1811 – and who lived for five years on a small barren island – during which time he subsisted on seals, and never saw the face of any human creature.”

Questo è il titolo del diario di Daniel Foss, pubblicato a Boston nel 1816. Una copia originale si può acquistare in questo sito alla modica cifra di 4.500 dollari. Queste sono alcune delle sue pagine:

Michele Iovinella

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